Un Bresciano in Normandia

Nella bella, dolce, verde Normandia c'era un "Panzer„ guidato da uno dei nostri


Francia settentrionale, quattro carri armati Panzer VI "Tiger" in viaggio, 1944

Mio padre mi diceva: «Figliolo, mio, quando girerai per il mondo e vedrai qualcosa di bello, allora guardati bene attorno: là c'è un Italiano».
Me lo diceva sempre, e una volta aggiunse: «Gli Italiani ci saranno anche nella Luna».
Così diceva. Ed io me ne sono ricordato oggi quando mi sono trovato davanti al soldato SS D.V., nato a P. di Brescia, carrista pilota in Normandia con la Divisione «A.H.», Panzer Regiment Abteilung.
Un soldato piccolo, quadro di spalle, con due occhi tremendi, due occhi che ti fanno il buco, neri come il fondo del calamaio. Un soldato piccolo con la parlantina dura e netta, la dura e netta parlantina del lago d'Iseo.
Per farlo parlare, questo soldato piccolo, bisognava interrogarlo. Ma interrogare i soldati è un pasticcio. Non sai mai come prenderli, cosa chieder loro, quale tono usare. Credi magari di averci spremuto al massimo e poi ti accorgi di non averci cavato niente. Per di più D.V. di P., pilota carrista eccetera eccetera, rispondeva soltanto a quello che gli si chiedeva. Non allargava mai l'argomento, nori aggiungeva niente di sua iniziativa. Era un SS, marciava spaccando il marciapiede, diceva signorsì e signornò, non sì prendeva certe libertà di discorso. Le parole le teneva in riga, inquadrate, nella più ferrea disciplina. Dovevo chiamarle fuori io a voce alta, come se comandassi una compagnia in piazza d'armi.
Il soldato V. (andiamo avanti in ordine) era nella Milizia, sottufficiale, quando ci cadde addosso la stangata dell'8 settembre. Anche suo padre era nella Milizia, e quella sera, senza che l'uno sapesse nulla dell'altro, se ne andarono a casa, e a casa s'incontrarono, si guardarono, si abbracciarono, bevvero insieme una bottiglia. La mamma era felice, la guerra era finita, il lago d'Iseo pareva più grande e tutto andava bene. Ma padre e figlio non erano mai stati così uniti, così vicini, e non si capiva il perchè. Senonchè un mattino essi indossarono di nuovo la divisa, chiusero il forno e il pastificio, e malgrado la madre piangesse come tutte le madri di tutto il mondo, voltarono le spalle al lago d'Iseo per andare in cerca di qualcuno che li pigliasse a fare di nuovo il soldato. Uno di qua, uno di là, dovettero separarsi.
Era il 15 di settembre.
Il 10 ottobre 1943 il soldato V.D. era già a Kiew, era già su un carro armato, era ancora in guerra.
Il 5 maggio di quest'anno, l'SS V.D. non è più in Russia, non ha più quel freddo cane addosso, perchè le «isbe» non le vede più, non vede più i soldati incappucciati di pelo bianco, non vede più i cimiteri dei nostri alpini, non vede più i bimbi russi che cercano il pane, cercano il latte, cercano la vita. Non vede più nulla di tutto questo, perché il suo «Panzer» corre ora tra i vigneti francesi, viene da Brusselle, viene da Gand, da Lilla e passa St. Quintin, la Forest de Compiegne, i sobborghi di Parigi, va a Nantes, va ad Evreux. E poi a Caen, Amiens, Abbeville, dappertutto.
In tutto il reggimento, in tutta la Divisione eccetera eccetera, D.V. del lago d'Iseo è il solo italiano, il solo piccolo italiano che ci sia, con sulle spalline le sigle di A.H. con nelle mani il volante del «Panzer» del Regiment Abteilung, santo Cielo! Noi facevamo i giornali, scrìvevamo che la guerra entrava in Europa, faceva cadere i campanili di Normandia e non sapevamo che laggiù, in mezzo alia più potente Divisione germanica, c'era un carro armato «Pantera» pilotato da D.V., nato a P., sulle montagne bresciane.
Non sapevamo che quel «Pantera», con altri tredici carri, una notte, davanti a Dreau, affrontava quasi duecento carri pesanti americani e per quattro ore si mandavano addosso fuoco a vicenda, un fuoco d'inferno, e i Germanici avevano otto carri colpiti e gli Americani centoventi a pezzi.
Il carrista SS D.V. era salvo, riportava nel luogo prestabilito il suo «Panzer»; ma quando si presentava a fare rapporto al capitano («un capitano prussiano, biondo e forte come un leone»), questi vedeva che il piccolo carrista aveva il capo che faceva sangue, due righe di sangue che facevano la corsa giù per la fronte.
Così D.V. fu all'Ospedale di Evreux, un bianco Ospedale in faccia ad un mare di vigne, verde e pacato proprio come la lontana piana bresciana.
Ventidue giorni trascorrono così, a guardare le vigne, a pensare alla madre, al pastificio chiuso, al lago piccolo che l'ha visto partire per andare così lontano. Non può scrivere, non può far sapere nulla sino al giorno in cui il capitano prussiano, «forte come un leone», non gli dirà:«Adesso vai a riaprire il pastificio».
La ferita è una cosa noiosa e lunga. Bisogna aver pazienza, bisogna essere buoni, gli dicono. Ma un mattino D.V. si mette la divisa, s'infila l'elmetto al braccio, e se va, senza saper dove, se ne va a cercare il «Panzer» Regiment Abteilung.
La peripezia è lunga e il Reggimento non si trova. I Germanici gli parlano nella loro lingua e luì sorride, fa un segno e dice: «Io sono di Brescia, sono di P.». E ripiglia a camminare.
I Francesi gli danno da mangiare, gli offrono anche un letto e gli dicono: «Monaco, Salisburgo, Francoforte, Colonia?» E Iui, D.V.: «sono di Brescia, sono di P.». E quelli non capiscono niente, non capiscono proprio perché un panettiere di P. faccia la guerra in Normandia, nella bella dolce verde Normandia, con la Divisione «A.H.».
II carrista va anche a Parigi, anche a Parigi, casomai il suo «Panzer» fosse là. Si ricorda ancora il nome delle strade e mi dice stupito: «In rue Madrid trovai un negozio italiano. C'era una donna che vendeva fiori ai soldati germanici che li donavano alle ragazze di Parigi. Ma il mio Reggimento non c'era».
Il suo Reggimento non c'era.
Era a Leauw St. Pierre, a trenta chilometri da Brusselle. E c'era il capitano prussiano, che fece chiamare il suo piccolo carrista italiano, gli guardò bene la ferita, che ancora secerneva sangue sulla garza, e gli disse: «Adesso vai ad aprire pastificio, a guardare tuo piccolo lago, tua Italia. Sei bravo soldato e tuo capitano ti ringrazia. Quando essere guarito, scrivere cartolina e io darti ancora «Panzer», e tu fare ancora guerra per D**e e F****r».
Così gli disse, e l'SS D.V. se ne venne via, fece tanta strada sui «Panzer» degli altri reggimenti, delle altre Divisioni, fino a Brescia, fino al piccolo lago d'Iseo che pareva allargarsi a dismisura.
Ecco tutto quello che ho tirato fuori dalla bocca del carrista che era in Normandia, tutte le parole alle quali ho comandato di uscir fuori allineate e coperte, dal cuore, dalla memoria, dalla bocca di D.V. che le teneva in disciplina.
Il carrista che per la prima volta (e possa un'ombra nei suoi occhi), per la prima volta ha disubbidito al suo capitano prussiano «forte come un leone». E anziché aprire il pastificio, il forno eccetera, ha trovato una caserma dì SS italiane e ci è andato dentro marciando, spaccando le pietre, dicendo: «Signorsì e signornò». Gli hanno detto: «Qui non abbiamo carri, non abbiamo «Panzer». Si cammina a piedi. Se vuoi rimanere... ».
E lui è rimasto.
Sino al giorno che sentirà la nostalgia del Regiment Abteilung e allora scriverà una cartolina al capitano prussiano che gli darà ancora il «Panzer», gli mostrerà ancora una strada, la strada di A., di B., o di C., per andare incontro al nemico, «Perché, egli mi dice, la SS non cadrà mai». E se ne va via marciando, spaccando il marciapiede.

Angelo F. Sampietro


NOTE
Riproduciamo pari-pari questo scritto del 1944 pubblicato su RF.
Evidenziamo ai lettori che alcuni aspetti del racconto potrebbero essere romanzati e/o accentuati.
Alcuni aspetti non sono verificabili (es. episodio di "Dreau", località sconosciuta.) inivitiamo chi abbia maggiori informazioni a lasciarle nei commenti

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