Giovanni Sarotti

Sergente Maggiore ROSOLINO GIOVANNI BATTISTA GIUSEPPE SAROTTI di Giuseppe e di Arzaroli Caterina, nato il 1° maggio 1901 a Edolo (Brescia) 1a compagnia carri armati della Somalia. Caduto l'11 novembre 1935 ad Hamanlei (somalia).
Camuno di Edolo, dove visse fino all'età di 10 anni, si trasferì poi a Brescia con la famiglia e fu ospite dell'Istituto Orfani.
Per nove anni dal 1925 al 1934 fu volontario nel corpo truppe coloniali in Libia e partecipò da carrista a tutti i combattimenti per la riconquista del Fezzan. All’inizio del 1935 andò volontario in Somalia e prese parte alle operazioni per la conquista dell’Impero sempre come carrista.

“Accerchiari dai nemici, nel generoso tentativo di salvataggio del carro, si sacrificavano i dubat di servizio e cadde il loro tenente Musti; cadde ferito gravemente il comandante della compagnia capitano Malignoni, perirono eroicamente il sergente carrista Bartino e i carristi Armini, Ascoli, Occidente.
Dallo sportello di sinistra del carro, infranto dai colpi abissini, il sergente mapgiore Sarotti freddò con un colpo di pistola il capo Mandafrù abissino Barambaras; poi, ferito, esausto di forze, assediato da masse urlanti inferocite, unico vivo fra i suoi, questo eroico sottoufficiale aperse lo sportello superiore, si eresse fuori col busto, allargò le braccia in segno di supremo abbandono al destino e. gridando «viva l’Italia», accolse la scarica che lo freddava”[1].
“Secondo le efferate abitudini, dettate dalla differente civiltà di quelle genti, i corpi dei due morti furono oltraggiati, mutilati e infine decapitati per presentare come trofeo [..] La sera del 25 aprile le truppe italiane raggiunsero Hamanlei e il luogo della battaglia dell’11 novembre 1935. [...] Si recuperarono i corpi di due carristi che da vari indizì vennero ritenuti quelli dei Sergenti Sarotti e Battino; alle spoglie venne data sepoltura in piccolo cimitero di guerra; le due tombe strettamente affiancate furono ricoperte da pesanti lastre di pietra”[2].

Prima Medaglia d’Oro al Valor Militare della Specialità (Carristi).
MEDAGLIA D'ORO AL VALOR MILITARE
Capo squadra di un carro d’assalto, in aspro combattimento si distingueva per ardimento e valore personale. Avuto il proprio carro immobilizzato nel generoso tentativo di trarne un altro in salvamento, si rifiutava di abbandonarlo, difendendosi animosamente in una lotta impari contro masse urlanti ed inferocite. Immolava eroicamente la propria esistenza emergendo dal carro in disperata difesa ed al grido: Viva l’Italia accoglieva la scarica in petto che lo fulminava.
– Hamanlei, 11 novembre 1935.

Fotografia concessa dalla famiglia Mirabella alla pubblicazione "a nessuno secondi - le ricompense al valor militare ai carristi d’italia dal 1927 ad oggi" a cura di Maurizio Parri e Carlo Bianchi 2021 - ASSOCIAZIONE NAZIONALE CARRISTI D'ITALIA


Giovanni Sarotti da Wikimedia Commons




L’EROICA TENACIA DEI CARRISTI



Con delicatezza gli avieri levano dal lettino dell'ospedaletto da campo il capilano Lapo Molignoni. Il ferito ha un polmone trapassato e gli avieri lo adagiano con tenerezza dentro la carlinga del Caproni che lo dovrà trasportare all’ospedale di Mogadiscio. Ha perduto molto sangue sul greto del torrente Fafan ove è stato colpito da una pallottola di mitragliatrice che gli è entrata da una spalla e gli è uscita dal costato destro, dall'alto in basso. Ormai è fuori pericolo, ma avrà bisogno di lunghe cure per riprendere quella energia ferrigna che fa di lui una figura eccezionale. Codesta energia egli ha dimostrato nella vicenda che sentiamo il dovere di raccontare nei particolari che ci sono stati narrati da camerati del Molignoni slesso.
È un pistoiese, calmissimo, che ha preso parte con i suoi carri armati a tutte le azioni della guerra in Somalia e nel Sud Etiopico.
A quello che egli ha compiuto. con una tenacia sovrumana si collegano gesta di soldati italiani che si sono votati alla morte.
Abbiamo già detto che la colonna Maletti con i suoi carri armati, le sue autoblinde e la truppa indigena, alla confluenza dei due torrenti ad Hamanlei ebbe a urtare con i primi agguerriti nuclei nemici.
Il capitano Molignoni è al centro della colonna con il suo plotone di carri armati. Maletti gli assegna il compito di buttarsi avanti con i suoi carri e i dubat. Molignoni si mette in piedi su di un carro armato per rendersi esatto conto della situazione.
Cominciano a grandinare proiettili di mitragliatrici e di fucili. Molignoni risponde aprendo il fuoco contro i «regolari» etiopi che egli distingue nettamente a duecento metri, con le loro tenute kaki, il berrettone alla giapponese, le mollettiere verde-oliva e i fucili nuovissimi, appena usciti dalla fabbrica, con il colore ancora chiaro del calcio. Sono buttali per terra, col fucile spianato, vicino ai loro carri armati e fanno fuoco.
Alle prime raffiche dei carri armati di Molignoni gli etiopi retrocedono un po' verso la prateria, ma, senza scompostezza, con calma. I dubat, rincuorati, serrano sotto. Dalla parte opposta del torrente, che è traversato dalla strada, una decina di alberi secolari, dal tronco immenso, coronano la sommità di una scarpata quasi a strapiombo. Per raggiungere i nemici occorre varcarla. Molignoni sceglie un punto meno disagevole. Quando si inerpica con i carri armati, la pendenza fortissima non gli lascia vedere che il cielo. Non vede i nemici e non è visto.
Superata l’altura dà un'occhiata al gruppo di etiopi che continuano a sparare ritirandosi. Li valuta un mezzo migliaio. Scorge perfettamente in prima linea un bianco che li guida, e li anima. È vestito all’europea, con stivaloni, pistolone alla cintura, tenuta kaki, e un casco per copricapo. È tarchiato e ha il volto arrossato dal sole.
Più lontano, un altro mezzo migliaio di etiopi, che sembrano abbandonati a loro stessi, camminano sulla pista di Sassabaneh, gettando tutto ciò che ingombra la loro ritirala, perfino il tascapane, ma non il fucile.

La fine di un mercenario



Molignoni punta con quattro carri armati in direzione del gruppo comandato dall’ufficiale europeo. Oltre a quelle centinaia di regolari, altri etiopi spuntano d’improvviso tutto intorno, come se scaturissero dal suolo. È tutta gente appaltata. Un capo eliope ravvollo in uno sciamma nero, bordalo di fregi d'oro, li incita all’assalto, snuda uno sciabolone e si getta contro i carri armati. Il capo abissino è tanto eccitato, che è facilmente travolto sotto le ruote del carro armato.
Le mitragliatrici aprono vuoti intorno, ma i nemici retrocedono metro a metro, con lentezza ammirevole; Molignoni intuisce che vogliono resistere da una collina prossima seminata di grossi sassi che dovrebbero formare un ostacolo al progresso dei carri armati. Ma il capitano Molignoni con tortuosità acrobatica si fa strada fra quei massi. Durante una di queste serpentine, dal suo carro armato di testa Molignoni scorge a circa un centinaio di metri l’ufficiale europeo che è tirato, per la sua corpulenza massiccia, a braccia sul collo di due etiopi che gli reggono le gambe. Il mitragliere punta preciso e il gruppo dei tre è abbattuto lungo la salita da una raffica.
I cinque autocarri giungono sulla sommità della collina, fatti segno a un fuoco nutritissimo di fucileria. Dall’alto si scorgono circa mille etiopi sulla strada di Sassabaneh. Sono fermi. Sembra che attendono ordini, come se avessero compreso di avere di fronte un numero di italiani inferiore a quello supposto.
Molignoni intuisce il pericolo e tralascia l’inseguimento per tornare sulla strada ove si delinea questa nuova minaccia. Cerca le tracce dell'itinerario di andata e lo ripercorre mentre dai massi balzano gruppetti di etiopi. A mano a mano li mitraglia. Il grosso delle truppe etiopiche comincia ad avanzare sparpagliandosi in mezzo alla fitta vegetazione. Molignoni va risolutamente incontro a questi armati che a gruppetti si vanno appiattendo. La lotta si fa un po' cieca, cespuglio per cespuglio, albero per albero. Ma il fuoco nemico si intensifica.

I carri immobilizzati



Il «carrista» Natali, che è al volante, grida a Molignoni in piedi sul carro armato: «Capitano, si tiri giù, ci lascia la pelle!». Molignoni non lo ascolta. Segue con attenzione i movimenti dei nemici che si buttano a mezza costa, lungo il torrente.
Per terra c'è tutto il materiale di guerra nemico che lascia scorgere la preparazione dell’imboscala: casselle di cartucce, sacchi di dura, sacchetti di zucchero ed altre vettovaglie.
Giunto presso il fiume, il capitano Molignoni incontra altri tre carri armati del tenente Cassata che hanno disincagliato un autoblinda dal fiume. Ad uno di questi tre carri si grippa il motore. Alza la bandierina rossa che segnala la sua immobilizzazione, purtroppo proprio sotto un nido di mitragliatrici.
Molignoni intravede la tragica situazione. Con il suo carro armato tenta di salire la scarpata dal lato che sembra più accessibile, ma non riesce ad arrampicarsi perché slitta di fianco e minaccia di capovolgersi.
Prova un altro passaggio dalla parte di destra per porlarsi dietro i nemici che stanno in alto, a mezza costa, riparatissimi dai tronchi degli alberi, dietro i quali sono le mitragliatrici che conlinuano a rullare.
Sotto, nel greto, un altro carro tenta di agganciare con un cavo di rimorchio la prima macchina, ma uno dei suoi cingoli si rompe. «Maledizione! - urla Molignoni - oggi abbiamo proprio la disdetta!». Con il suo carro armato si butta contro gli alberi, a colpi di ariete. La manovra è vana perché il nemico continua a sparare.
Gli abissini mitraglieri sono in un ripiego del terreno che li rende invisibili e invulnerabili. Non è possibile snidarli da quel covo per essi veramente provvidenziale. Tutti i nostri colpi si abbattono sul terreno e contro gli alberi inutilmente.
Il colonnello Maletti manda a chiamare Molignoni che si reca da lui con il suo carro armato e ritorna poco dopo sul terreno della lotta. Questa volta ha mutato programma. AI sergente Sarotti e al «carrista» Occidente egli dà ordine di tentare il trasporto delle due macchine immobilizzate sulle quali, dall'alto, i nemici seguitano a sparare. Pensa così di distrarli. Lascia il suo carro armato e si arrampica come un leopardo tra i cespugli contro i quali comincia a tirare le bombe a mano mentre in basso i suoi due subalterni tenatano la manovra. Tutto è inutile. I carri non si smuovono.
Ma Molignoni è testardo. «Andiamo noi - dice, al suo pilota. - scendiamo sul greto e tentiamo per l'ultima volta di disincagliare e di trasportare i due carri. lo sparerò con la mitragliatrice e tu tenta di attaccare il cavo di rimorchio».
Il pilota Natali esce curvo con cautela. Dopo qualche minuto torna alla macchina. con le mani tutte insanguinate. Ha un dito spappolato da un proiettile. Non può più pilotare. Molignoni si mette al volante e riporta il ferito al vicino posto di medicazione. Chiama il sergente Battino e lo colloca al volante per ritornare ancora a quel dannato greto del torrente, nella cui scarpata i nemici resistono sempre. Prende con sé dieci ascari e porta una nuova dotazione di bombe a mano. Decide di portare via soltanto il primo carro armato, quello che si è grippato anzi che il secondo, ormai privo di un cingolo.
Il sergente Battino avverte il capitano Molignoni che stanno sparando da tutte le parti. Molignoni apre lo sportello di ferro del carro armato e con un lungo balzo si getta sotto il cespuglio tenendo in mano quattro bombe. Giunto sotto ne lancia tre dal basso in alto e grida dalla rampa: «Battino ha attaccato il rimorchio?». In quell'istante cade riverso col viso nella sabbia, gettando un flotto di sangue dalla bocca. Una pallottola di mitragliatrice lo ha colpito dall’alto in basso, dalla spalla all’ascella, forandogli nettamente un polmone.
Il sergente Battino, incurante del fuoco, accorre, si carica il capilano, lo sospinge dentro il carro armato, si mette al volante e lo porta alla tenda di medicazione. Assicurarsi che il suo capilano è nella barella, questo magnifico sottufficiale vuole ripetere la manovra mortale del suo superiore, che è stata interrotta.
Chiama l'allievo pilota Ascoli, gli dà in mano il volante e con lui parte per il recupero della prima macchina. Appena apre lo sportellino per scendere sul greto una pallottola lo fulmina al petto e lo abbatte dentro il carro armato. Ormai i nemici tirano come da un palchetto su tutti quelli che tentano di portare via quei due «scarognatissimi» carri armati.
Il tenente Cassata giunge sul posto e d'ordine del colonnello Maletti grida al sergente Sarotti e ai due «carristi» Ascoli e Occidente di abbandonare i carri al loro destino. I tre rispondono all'interno delle blindature che non si vogliono muovere, che non intendono abbandonare le loro macchine di guerra, che tenteranno di portarle via più tardi, col favore delle tenebre. Quale ostinazione sublime inchioda quei tre uomini sui loro posti di combattimento? Perché non obbediscono? Non hanno compreso che si votano alla morte?
Il tenente Cassata ripete l’ordine superiore per ben tre volte. Gli altri rispondono sempre allo stesso modo. In quel momento il tenente Cassata è anch'egli ferito alle braccia e ripiega verso il colonnello Maletti per riferire la risposta dei «carristi». La colonna deve prendere la via del ritorno.
Da lontano la fucileria dei nemici si fa sempre più fioca e dopo pochi minuti tace del tutto. Gli abissini si ritirano lungo la strada di Sassabanek.
Gli autocarri, le autoblinde e i carri armati iniziano nella pista una marcia serpeggiante per non schiacciare i cadaveri abissini.
Sul greto vicino un silenzio di tomba avvolge al crepuscolo le due macchine con i loro tre spartani difensori, volontari della morte...

Achille Benedetti
corriere della Sera - dicembre 1935




[...] Ci si riprometteva di tornare il giorno successivo a recuperare i 3 carri armati e i 3 carristi ma altri avvenimenti lo impedirono e le forze italiane tornarono ad Hamanlei solo nell'aprile successivo.
Della fine di Sarotti, Occidente e Ascoli non si ha alcuna versione precisa. Si può solo ricostruire in base alla testimonianza di Labib Hassan, cittadino egiziano, infermiere della Missione Sanitaria d'Egitto in Abissinia.
Si deve ritenere che i tre carristi continuassero a difendersi con le mitragliatrici di bordo, per quanto consentiva il limitato brandeggio e la posizione dei carri immobilizzati, dalla pressione sempre più audace degli Abissini. Poi un carrista fu ucciso e due catturati. Secondo le efferate abitudini, dettate dalla differente civiltà di quelle genti, i corpi dei due morti furono oltraggiati, mutilati e infine decapitati per presentare come trofeo le teste al Negus Neghestì, del quale si attendeva una visita.
Labib Hassan giunse con la Missione a cui apparteneva il 9.12.1935 a sera a Dagabur. La mattina seguente vide avanzare un folto gruppo di armati etiopici che facevano fantasia e che portavano in trionfo due corpi decapitati di bianchi e le loro teste infilate su delle lance. Seppe che si trattava di due dei 4 Italiani catturati poco prima su due carri armati. Spostatosi a Bollali per ragioni del suo incarico ebbe modo di vedere i due carristi italiani superstiti; erano tenuti sotto una tenda, strettamente legati mani e piedi; avevano varie ferite sul corpo e il volto tumefatto per le percosse ricevute. In continuazione gruppi di Abissini curiosi andavano a vederli e infierivano su di loro. Non venivano nutriti e il Labib IHassan affermò di averli imboccati essendo impossibilitati a muoversi per i legacci. Il 13 dicembre giunse Hailé Sellasié e, sempre secondo il Labib, alla richiesta fattagli dal medico egiziano Mohammed es Sakkui non volle intervenire a favore dei due prigionieri. Poi furono condotti ad Harar ed uccisi in epoca imprecisata.
...La sera del 25 aprile le truppe italiane raggiunsero Hamanlei e il luogo della battaglia dell’11 novembre 1935. Furono recuperati tre carri ed uno, si ritiene quello del serg. Battino, fu trovato in condizioni tali da essere reintegrato nella 1° compagnia dopo un breve lavoro di ripristino. Si recuperarono i corpi di due carristi che da vari indizì vennero ritenuti quelli dei Sergenti Sarotti e Battino; alle spoglie venne data sepoltura in piccolo cimitero di guerra; le due tombe strettamente affiancate furono ricoperte da pesanti lastre di pietra.

MEMORIE STORICHE 1994



Il carro d'assalto “1-9” di Hamanlei


...È il carro d’assalto coloniale «1-9» di Hamanlei. Se ne sta silente, tragico, nel mezzo di uno dei bei saloni di ingresso del museo. La vecchia colorazione cacki sbiadita e consunta, ci dice che si tratta di uno strumento di guerra adusato ai climi delle colonie. Infatti egli pervenne alla equatoriale Somalia dalla mediterranea Tripoli, ove ebbe a conoscere le scoscese «gare», le dorate sahariane «ramle», le sassose «uad », le giogaie del «gebel» gli sterminati deserti «serir» del lontano Fezzan. È un carro d'assalto appartenente al Battaglione Coloniale Tripolino che fu chiamato d'urgenza: in soccorso della colonia Somala (ancora sotto la minaccia degli: ammassamenti abissini), dopo Ual-UAl, verso la fine del 1934.
Lo osserviamo col cuore gonfio di commozione. Vi leggiamo, in corrispondenza degli angusti, rispettivi posti di combattimento, due nomi: sergente maggiore Sarotti, presente! carrista Occidente, presente!
È l'equipaggio, che la sera dell'11 novembre 1935 ad Hamanlei dopo una fulgidissima giornata di vittoria nostra, vi perdette eroicamente la vita.
Questa è la bella tomba di acciaio di due carristi d’Italia; e non furono i soli di quella piccola schiera che affrontarono il nemico nel primo forte e cruento cozzo del conflitto italo-etiopico, a cadere sul campo. Essi altresì si arrogarono un altro primato invidiabile ed indimenticabile, e consiste nel battesimo del sangue che, ad Hamanlei, essi offrirono alla Patria in nome di tutti i carristi d'Italia.
Osserviamo ancora questo carro «1-9». Il colore giallo-sabbia è quasi scomparso sotto l’azione del sole implacabile, per le scrostature delle offese vicine, per i segni della lotta tremenda. Molti soldati e legionari d’Italia vi hanno incisi i loro nomi quasi in regno di merito nella riconquista.
Fu ritrovato sul letto del «Fafan» tal quale fu abbandonato la sera della lotta; aveva ancora il cingolo spezzatosi nel generoso tentativo di portare a salvamento un carro fratello («1-6») che si era fermato in avaria. Avevano combattuto per 6 ore, i carri ed i motori erano abbrustoliti. Solo un guasto irrimediabile poteva paralizzare la pazza ed instancabile attività del carro «1-9»
Cerchiamo le tracce della lotta: è tempestato di colpi da tutte le parti. Qualcuno è entrato dal radiatore, e dalla griglietta posteriore. Uno sportello asportato, quello di sinistra divelto. La casamatta — delle mitragliere è stata tambureggiata e cosi le feritoie laterali; dalla sinistra delle quali — ci riferirono gli abissini sottomessi a Giggiga — il carrista superstite sparò l'ultimo colpo di pistola automatica spaccando la testa al loro capo, il burambaras Mandafrù.
La giornata di Hamanlei - 11 novembre 1935 - compendia avvenimenti ed anticipa aspetti di quella che sarebbe stata la guerra di Somalia. Fu un urto in prevalenza di macchine. Dalla parte avversaria i nemici appiedati erano molto più di un migliaio (deposizioni di sottomessi abissini li fanno salire fino a 4000) appoggiati da numerosi autocarri di cui parecchi semiblindati. Da parte nostra, due bande di pochi Dubat appoggiate del peso formidabile di 16 macchine d’assalto (11 carri e 5 auto-blindate) armati di 5 cannoncini, 26 mitragliatrici. Il cozzo fu di forze meccanizzate è dopo pochi minuti dal primo scontro 11 carri abissini vennero distrutti dal cannone delle auto-blinde. Nel successivo attacco dei Dubat e dei carri d'assalto, le orde vennero spezzate, frantumate, inseguite. I carri d’assalto per cinque chilometri di inseguimento, schiacciarono, mitragliarono, dispersero le orde impazzite dal terrore.
Il combattimento durò a lungo. Innumerevoli volte carri e auto-blinde si erano fermati e soccorsi a vicenda togliendosi dalle difficoltà del terreno, pantanoso nel torrente e sassoso nelle circostanti ondulazioni. Ma il campo troppo vasto non poteva essere completamente rastrellato dalle frantumate formazioni nemiche, ed una di esse si rintanò, per salvarsi, in una buca ben munita e ben nascosta. Fu a pochi passi di là ché un carro d’assalto si fermò in guasto. Altri carri sopraggiunsero, e nei tentativi eroici di salvare tutti gli uomini e tutte le macchine, altre vite generose si sacrificarono, in una mischia a colpi di bombe a mano. L'ultimo a resistere fu il carro «1-9».
Dalle sue feritoie uscì fuoco sino all’ultimo, ma il cingolo spezzato non permetteva alcun movimento chè, al pari del fuoco, è elemento di vita per il carro d’assalto. Poi, quando tutte le speranze e tutte le forze furono esaurite, ed il capocarro ebbe chiara la visione della fine che l'attendeva, aperse lo sportello, emerse a mezzo busto dal carro e fieramente affrontò il suo destino tragico. Aperse le braccia ed accorse così al grido di «Viva l’Italia» la scarica sul petto che lo freddava a bruciapelo. L'altro carrista, il pilota, era già deceduto.
Le gesta dei carristi della Somalia, iniziatasi ad Ual-Ual ebbero la consacrazione ad Hamanlei, e la continuazione, in una serie di altri 20° combattimenti che costituiscono una via nuova e luminosa per le armi d’Italia. Essa percorre le vallate dellUebi e del Giuba, si ramifica in cento direzioni, percorre la ferrovia di Gibuti e giunge ad Addis Abeba sorpassa Neghelli; s'insinua nella regione dei Laghi e giunge alla cattura di ras Destà. Chè ovunque; sul fronte somalo, i carri d’assalto furono presenti ed ebbero la loro bella parola da dire.

Amedeo Pederzini
LE FORZE ARMATE N.1210 del 2 aprile I937.
da https://www.assocarri.it/la-nostra-storia/



Il carro L3/33 (1-9), a bordo del quale cadde la MOVM Sarotti e MAVM Occidente recuperato nel aprile del 1936, dopo recente restauro è esposto presso il Museo dei Carristi, poco distante dalla Basilica di Santa Croce di Gerusalemme a Roma.

fonte: su preservedtanks.com (è possibile visionare la scheda e ulteriori foto del carro)



carro 1-9
Della 1a compagnia carri della somalia
Questo carro fortunosamente riportato in italia. costituisce il primo sacro cimelio di gloria e di sacrificio della tradizione carrista. su di esso l’11 novembre 1935, nel combattimento di hamanlei-somalia, si immolarono il capo carro serg. magg. Giovanni Sarotti medaglia d’oro al valor militare alea memoria ed il pilota carrista Occidente Fao medaglia d’argento alla memoria nel l’eroico tentativo di salvare l’equipaggio di un altro carro colpito dal fuoco nemico. a queste memorie ci inchiniamo commossi.

Bibliografia:


• [1] L'Africa in vetrina: storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia di Nicola Labanca
• [2] MEMORIE STORICHE 1994 - Studi monografici a cura dell’Ufficio Storico dello SME
chieracostui.com
preservedtanks.com
movm.com
commons.wikimedia
associazione carristi d'Italia
Il carro d’Assalto “I-9” di Hamanlei su assocarri.it
• TRACCE DI CINGOLO - compendio generale di storia dei Carristi di Maurizio PARRI
• Rivista il carrista numero 159 - testimonianza di Raimondi Prizzi
• Calendario Carrista 95
• Popolo di Brescia, 1940
• a nessuno secondi - le ricompense al valor militare ai carristi d’italia dal 1927 ad oggi a cura di Maurizio Parri e Carlo Bianchi 2021
• Corriere della sera - 18 dicembre 1935
• comunicato di Badoglio N. 197: [...] Al centro, la colonna Frusci ha compiuto il rastrellamento del terreno intorno ad Hamanlei. Sono stati ripresi i 3 carri armati che erano rimasti impantanati nella valle del Faf, durante la ricognizione della colonna Maletti, l'11 novembre scorso. [...]

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